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BEATRICE CENCI

Beatrice Cenci (Roma, 6 febbraio 1577 – Roma, 11 settembre 1599) fu una giovane nobildonna romana giustiziata per parricidio e poi assurta al ruolo di eroina popolare. Figlia del conte Francesco Cenci, uomo violento e dissoluto, e di Ersilia Santacroce, dopo la morte della madre, fu messa a sette anni, nel giugno del 1584, insieme alla sorella maggiore Antonina, presso le monache francescane del Monastero di Santa Croce a Montecitorio. Ritornata in famiglia, all'età di quindici anni, vi trovò un ambiente quanto mai difficile e fu costretta a subire le angherie e le insidie del padre che, poco dopo, nel 1593, sposò, in seconde nozze, la vedova Lucrezia Petroni, che aveva già una figlia (uccisa dal padre di Beatrice), dalla quale non ebbe figli. Francesco, oberato dai debiti, incarcerato e processato per delitti anche infamanti, condannato due volte per "colpe nefandissime" al versamento di somme rilevanti, pur di non pagare la dote di Beatrice, volle impedirle di sposarsi, e decise nel 1595 di segregarla, insieme alla matrigna Lucrezia, a Petrella Salto, in un piccolo castello del Cicolano, chiamato la Rocca, nel territorio del Regno di Napoli, di proprietà della famiglia Colonna. In quella forzata prigionia crebbe il risentimento di Beatrice verso il padre. La ragazza tentò anche, con la complicità dei domestici, di inviare richieste di aiuto ai familiari ed ai fratelli maggiori ma senza alcun risultato.
Una delle lettere arrivò, anzi, nelle mani del conte provocandone la dura reazione: Beatrice fu brutalmente percossa. Nel 1597 Francesco, malato di rogna e di gotta, anche per fuggire alle richieste pressanti dei creditori, si ritirò a Petrella, portando con sé i figli minori Bernardo e Paolo, e le condizioni di vita delle due donne divennero ancora peggiori. Si dice che, esasperata dalle violenze e dagli abusi paterni, Beatrice fosse giunta alla decisione di organizzare l'omicidio di Francesco con la complicità della matrigna Lucrezia, i fratelli Giacomo e Bernardo, il castellano Olimpio Calvetti ed il maniscalco Marzio da Fioran detto il Catalano. Per due volte il tentativo fallì: la prima volta si cercò di sopprimerlo con il veleno, la seconda con un'imboscata di briganti locali. La terza, stordito dall'oppio fornito da Giacomo e mescolato ad una bevanda, fu assalito nel sonno: Marzio gli spezzò le gambe con un matterello, Olimpio lo finì colpendolo al cranio ed alla gola con un chiodo ed un martello. Per nascondere il delitto i congiurati tentarono di simulare una morte accidentale per caduta: fu aperto un foro nelle assi marce di un ballatoio della Rocca di Petrella, tentando d'infilarci il cadavere. La cosa non riuscì: il foro era troppo piccolo. Decisero allora di gettarlo dalla balaustra.
Il 9 settembre 1598 il corpo di Francesco fu trovato in un orto ai piedi della Rocca. Dopo le esequie il conte fu sepolto in fretta nella locale chiesa di Santa Maria. I familiari, che non parteciparono alle cerimonie funebri, lasciarono il castello e tornarono a Roma nella dimora di famiglia, Palazzo Cenci, nei pressi del Ghetto. Inizialmente non furono svolte indagini ma voci e sospetti, alimentati dalla fama sinistra del conte e dagli odi che aveva suscitato nei suoi congiunti, indussero le autorità ad indagare sul reale svolgimento dei fatti.
Dopo le prime due inchieste, la prima voluta dal feudatario di Petrella il duca Marzio Colonna, la seconda ordinata dal viceré del Regno di Napoli Don Enrico di Gusman, conte di Olivares, lo stesso pontefice Clemente VIII volle intervenire nella vicenda.
La salma fu riesumata e le ferite furono attentamente esaminate da un medico e due chirurghi che esclusero la caduta come possibile causa delle lesioni. Fu anche interrogata una lavandaia: Beatrice le aveva chiesto di lavare lenzuola intrise di sangue dicendole che le macchie erano dovute alle sue mestruazioni ma la giustificazione, dichiarò la donna, non le sembrò verosimile. Insospettì gli inquirenti, inoltre, l'assenza di sangue nel luogo ove il cadavere era stato rinvenuto.
I congiurati vennero scoperti ed imprigionati. Calvetti, minacciato di tormenti, rivelò il complotto. Riuscito a fuggire fu poi fatto uccidere da un conoscente dei Cenci, monsignor Mario Guerra, per impedirne ulteriori testimonianze. Anche Marzio da Fioran, sottoposto a tortura, confessò ma, messo a confronto con Beatrice, ritrattò e morì poco dopo per le ferite subite. Giacomo e Bernardo confessarono anch'essi. Beatrice inizialmente negò ostinatamente ogni coinvolgimento indicando Olimpio come unico colpevole, ma la tortura della corda ne vinse ogni resistenza e finì per ammettere il delitto.
Acquisite le prove, i due fratelli Bernardo e Giacomo furono rinchiusi nel carcere di Tordinona, Beatrice e Lucrezia in quello di Corte Savella. Il processo fu affidato al giudice Ulisse Moscato ed ebbe un grande seguito pubblico. Nel dibattimento si affrontarono due tra i più grandi avvocati dell'epoca: l'alatrese Pompeo Molella per l'accusa e Prospero Farinacci per la difesa. Farinacci, nel tentativo di alleggerire la posizione della giovane, accusò Francesco di aver stuprato la figlia. Ma Beatrice nelle sue deposizioni non volle mai confermare l'affermazione del difensore. Alla fine prevalsero le tesi accusatorie di Molella e gli imputati superstiti vennero tutti giudicati colpevoli e condannati a morte. Si noti che il processo fu funestato da alcuni vizi procedurali, a danno dei Cenci, tra i quali quello di impedire all'avvocato difensore la pronuncia della sua arringa conclusiva ammettendolo in aula solo a sentenza emessa.
Cardinali e difensori inoltrarono richieste di clemenza al pontefice ma Clemente VIII, preoccupato per i numerosi e ripetuti episodi di violenza verificatisi nel territorio dello Stato, volle dare un severo ammonimento e le respinse: Beatrice e Lucrezia, furono condannate alla decapitazione, Giacomo allo squartamento. Solo per Bernardo il pontefice acconsentì alla commutazione della pena.
Bernardo, il fratello minore di soli diciotto anni, pur non avendo partecipato attivamente all'omicidio, era stato anch'esso condannato per non aver denunciato il complotto ma, per la sua giovane età, ebbe risparmiata la vita: gli fu imposta la pena dei remi perpetui, cioè remare per tutta la vita sulle galere pontificie, e fu obbligato, inoltre, ad assistere all'esecuzione dei congiunti legato a una sedia. In aggiunta, la notizia della commutazione della pena gli fu deliberatamente nascosta e comunicata solo poche ore prima della scampata esecuzione. Solo alcuni anni più tardi, dopo il pagamento di una grossa somma di denaro, riottenne la libertà. L'esecuzione di Beatrice, della matrigna e del fratello maggiore avvenne la mattina dell'11 settembre 1599 nella piazza di Castel Sant'Angelo gremita di folla. Tra i presenti anche Caravaggio insieme con il pittore Orazio Gentileschi e la figlioletta, anch'essa futura pittrice, Artemisia. La giornata molto afosa e la calca provocarono la morte di alcuni spettatori; qualcun altro cadde ed annegò nel Tevere.
La decapitazione delle due donne fu eseguita con la spada. La prima ad essere uccisa fu Lucrezia, seguì poi Beatrice ed infine Giacomo: seviziato durante il tragitto con tenaglie roventi, mazzolato e infine squartato.
Alcuni dettagli relativi ai momenti cruciali dell'esecuzione sono contenuti nelle "Memorie romanzate di Giambattista Bugatti" detto Mastro Titta, boia dello Stato Pontificio dal 1796 al 1864. Nel testo si fa riferimento ad una non meglio precisata Relazione del supplizio dei Cenci, dalla quale emergerebbe che, con riferimento a Lucrezia Petroni,
"Non sapendo come dovesse accomodarsi domandò ad Alessandro primo boia cosa avesse da fare, e dicendole che cavalcasse la tavoletta del ceppo e si stendesse sopra di quella, nel che fare per la mole del corpo, ma più per la vergogna durò grandissima fatica, ma molto maggiore fu quella di accomodarsi con il collo sotto la mannaia, perché aveva il petto tanto rilevato che non poteva arrivare a porre la gola sopra quel legnetto in cui cade il ferro della mannaia, a cagione che, non essendo la tavoletta più larga di un palmo, non era capace per l'appoggio delle mammelle".
Con riferimento agli ultimi attimi di vita di Beatrice, un altro testo ottocentesco, in conformità a quanto risulta dalla fonte citata in precedenza (probabilmente attingendo al resoconto contenuto nella Relazione), riporta gli episodi successivi all'esecuzione di Lucrezia Petroni, inseriti nel rituale che accompagna Beatrice Cenci verso il palco dell'esecuzione. V'è da notare che ci furono vari tentativi di alterare il corso degli eventi mediante tumulti e risse, segno di una profonda disapprovazione popolare nei confronti della sentenza di morte ratificata dal papa Clemente VIII.

« Vennero frattanto altre soldatesche dal lato di Castel S. Angiolo, ed aumentata la forza armata intorno al patibolo, si proseguì il corso della giustizia, quando si vide un poco calmato il tumulto deila folla.
Beatrice genuflessa nella cappella era talmente assorta nella sua preghiera che non fece attenzione al rumore ed alle grida; soltanto si riscosse quando lo stendardo entrò nella cappella per precederla al supplizio. Si alzò, e con la vivacità di una sorpresa domandò: — La mia signora madre è veramente morta? — Le fu risposto affermativamente, ed ella gettatasi ai piedi del Crocifisso pregò con fervore per l'anima di lei. Poi parlò ad alta voce e lunga pezza col Crocifisso dicendo cose troppo non connesse, e finì con esclamare: — Signore tu mi chiami ed io di buona voglia ti seguo, perché so di meritare la tua misericordia. Si accostò al fratello, lo baciò in fronte, e con un sorriso d'amore gli disse: — Non ti accorare per me, saremo felici in cielo, poiché ti ho perdonato.
Giacomo svenne. La sorella, volgendosi agli sgherri: - andiamo - disse, e franca si avanzava alla porta, ma il carnefice le si fece avanti con una corda, e pareva che temesse di avvolgere con essa quel corpo. [...]
Appena Lo stendardo uscì dalla cappella, e che la meschina accompagnata da due cappuccini arrivò al pié del palco, un subito silenzio fece credere deserto quel luogo per lo avanti sì rumoroso. Tutti volevano sentire se articolava qualche parola, e con gli occhi a lei rivolti, e con bocche aperte pareva che pendesse dalle di lei labbra la loro esistenza.
Beatrice al pie' del palco, baciò il Crocifisso, fu benedetta dal frate; e lasciate le pianelle, salita destramente la scala, lentissima arrivò al fatale ceppo, niuno si avvide della pronta mossa che gli fece scavalcare la panca che aveva cagionato tanto ribrezzo alla Petroni; si collocò perfettamente da se inibendo con uno sguardo fiero al carnefice di toccarla per levarle il velo dal collo, che da se stessa gettò sul tavolato. Ad alta voce invocava Gasù e Maria attendendo il colpo fatale, passò però in questa orribile situazione alcuni istanti, perché il carnefice intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s'agitò con violenza. Il misero Bernardo Cenci costretto ad esser testimone del supplizio di sua sorella cadde svenuto, e per lunga mezz'ora non poté essere richiamato ai sensi.
La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda [...]". »

(Beatrice Cenci, Romana storia del secolo XVI", Roma, 1849)

Dopo l'esecuzione, le proprietà della famiglia Cenci furono confiscate dalla Camera Apostolica e vendute all'asta per 91 000 scudi, cifra assolutamente inferiore al loro valore reale. La maggior parte dei beni, tra i quali la grande tenuta di Torrenova, settemila ettari ed un castello nell'Agro Romano, fu acquistata da Gian Francesco Aldobrandini, nipote del papa. Il procedimento innescò una lunga serie di cause legali promosse dai superstiti della famiglia con parziali restituzioni di beni. La confisca, inoltre, rese vane le disposizioni testamentarie di Beatrice che aveva deciso consistenti lasciti in favore di varie istituzioni religiose. Nel 1798, durante la Prima Repubblica Romana, i soldati francesi, che avevano occupato la città al comando del generale Berthier, si abbandonarono a razzie e requisizioni: anche le tombe furono violate per impossessarsi del piombo delle casse. Secondo la testimonianza del pittore Vincenzo Camuccini, che assistette all'episodio mentre lavorava al restauro della Trasfigurazione di Raffaello, alcuni soldati, guidati da uno scultore loro connazionale, entrati nella chiesa di San Pietro in Montorio, iniziarono a spaccare le lastre dei sepolcri poste sul pavimento. Uno di loro aprì la cassa di Beatrice e s'impossessò del vassoio d'argento sul quale era stata deposta la testa della giovane. Lo scultore, preso il teschio, incurante delle proteste di Camuccini, si allontanò lanciandolo in aria per gioco.

Fonte: Wikipedia
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